Guardare negli occhi o non guardare negli occhi. I dilemmi del Bradipo
Tutti quei quadri alle pareti, i tappeti sui pavimenti, i mobili d’epoca popolati di tarli, i libri disseminati un po’ ovunque. Gli scatoloni ammassati nel cucinino, che per farti un caffè devi appiattirti alla parete e assumere l’andatura di un granchio. Le scale, i cambi di direzione repentini dopo la curva in fondo al corridoio, una specie di labirinto. E le porte a vetri che sbattono sempre quando c’è troppo vento. Il su e giù scandito dal calpestio felpato di piedi sulla lana dei tappeti. Le lampade con il loro ronzare, quasi vibrano, è come se si accendessero e spegnessero di continuo. Mi fanno sentire come se i miei bulbi oculari fossero dentro ad una centrifuga. Batto le palpebre spesso e cerco di escludere questa strana percezione, che a quanto pare sono soltanto io ad avvertire. Il campanello della porta di ingresso suona di continuo. Un trillo forte, deciso ed improvviso. Rimbomba per otto ore al giorno (sto proprio lì accanto) e porta con sé sempre nuove sorprese, persone vecchie e nuove, ma sempre l’incognita su cosa “fare di ognuno”.
Stringere la mano o non stringerla?
Guardare negli occhi: se non lo fai, potresti dare l’impressione che non ti interessi quello che il tuo interlocutore sta dicendo. Ma non devi nemmeno fissarlo. Di tanto in tanto distogli lo sguardo, ma cerca di non dare l’impressione che ci sia qualcosa di più importante a distrarti.
Sorridi: un sorriso amichevole aiuta qualsiasi conversazione. Ma cerca di essere spontaneo. Non devi sembrare affetto da una paresi e gli occhi devono sorridere assieme a tutto il volto. Se l’argomento è serio, sorridere potrebbe essere preso per una mancanza di rispetto, o peggio, per una presa in giro. Non aggrottare la fronte, non storcere la bocca, non strizzare gli occhi. Tutte queste cose, potrebbero evocare un’impressione negativa.
Annuisci di tanto in tanto: per far capire che sei coinvolto nel discorso e che comprendi.
Presta attenzione: non distrarti giocherellando con degli oggetti. Tieni il cellulare in tasca. Non tamburellare con le dita, non giocare con i capelli, con il vestito. Tutto ciò, potrebbe denotare insicurezza o nervosismo. In una parola: debolezza ed inadeguatezza!
Posizione del corpo: Stai dritto con la schiena, ma rilassato, non tipo robot. Attenzione, non stravaccato, una sicura rilassatezza. Le braccia conserte, potrebbero dare impressione di chiusura e distanza o risultare dominanti. Invece noi dobbiamo sembrare amichevoli, accoglienti ed autorevoli. Le gambe vanno parallele ma non troppo. I piedi mai verso l’interno, potresti sembrare timido ed impacciato. Se il tuo interlocutore si trova in basso rispetto a te, non piegarti verso di lui/lei come fosse un bambino. Se siete molto più alti, meglio stare un po’ distanti, si noterà meno il dislivello tra di voi. La distanza ideale è di 50 centimetri circa.
Ricorda, normale, rilassato e sicuro di te. Esercitati davanti allo specchio simulando ipotetiche situazioni, fino a quando ti verrà tutto spontaneo.
Guarda negli occhi e parla con voce ferma, non troppo velocemente come tuo solito che non si capisce niente.
No, non così che sembra che gli stai facendo la radiografia. Distogli lo sguardo! No, nemmeno così, sembra tu abbia notato quel grosso porro peloso che ha sopra al labbro.
Naturale! Ecco, così va meglio. Sorridi! Rilassata! Spero non sembri un ghigno. Meglio non mostrare i denti. Distogli lo sguardo dal porro! Non sorridere troppo che sembra tu rida per quello! Più seria, ma non troppo che ti spunta il vaffanculo che c’hai tatuato in fronte.
Cosa sta dicendo? Non ho capito nulla, però annuiamo che non fa mai male. Perché mi guarda così adesso? Ah, ha chiesto del capo, bene rispondi, non dimenticare di sorridere e non distogliere lo sguardo, senza fissarlo troppo. Fissalo, ma non fissarlo.
Stai ferma con le dita, non sfarfallare che sembri scema. Dritta con la schiena, ma non esagerare. Come era poi? ah si! Gambe parallele e rilassate. Si, così. Molleggia che si rilassano meglio. I piedi sono dritti? Si sono dritti. Anzi no, sono all’infuori. Sembro Pippo! Che diceva a proposito dei piedi pippeggianti?
Quanto sarà alto? Più o meno come me. Spero non si presenti mai Brunetta qui dentro, potrei esplodere!
Allora 50 centimetri quanti saranno? Da quel disegnino sul tappeto dovrebbero esserci forse. Un po’ di più…ma si abbondiamo!
E poi, è signore, dottore, professore o onorevole? No l’ho sbagliata pure questa volta. Mi è Presidente, ci tiene a quel titolo e lo fa notare. E sta in compagnia del cavaliere e del commendatore. E io non ho idea di cosa significhi, che nasciamo tutti nudi e senza titoli a corredo e vorrei tornare a quei tempi molto volentieri.
Li faccio accomodare, capiscono alla seconda o terza volta quello che gli sto dicendo perché parlo troppo piano. Non ci siamo, alza il volume! La mia collega tanto per cambiare è scappata in bagno per togliersi la responsabilità, l’altra evita di incontrare il mio sguardo che implora aiuto. Li accompagno in salotto e chiedo se desiderano un caffè o qualcos’altro nell’attesa. Mi dicono ognuno una cosa diversa che non mi ricorderò mai e non l’ho nemmeno scritto.
Prendo il coraggio a due mani e vado ad annunciare l’ospite. Non so se sia sgradito o meno, in quell’immenso calderone di possibilità che non saprò mai padroneggiare. Lo annuncio, mi sento fare il verso per il modo in cui parlo.
Mi prendo la strillata perché quei tizi non sono affatto i benvenuti però ormai sono qua. Mi dice due o tre cose diverse, tutte contrastanti. Rimango lì ferma, con la faccia a punto interrogativo. Guardando, senza fissare, distogliendo lo sguardo ogni tanto, non sorridendo per non sembrare che stia li a prendenderlo per il culo (ci arrivo fino a qua). Alla fine dice:
Non ci sono!
Scatto, terrorizzata perché non so cosa dovrò inventare. Per fortuna mi ferma e dice:
Non vedi che sono impegnato?! Però ormai… falli entrare.
Li introduco nell’antro in cui tutta l’ansia del mondo prende forma. Salivazione azzerata, andatura stentata e claudicante, inciampo due o tre volte lungo i bordi dei tappeti in corridoio. Riesco ad evitare di cadere lunga stesa davanti agli occhi di tutta quella gente, con la quale penso di essermi già abbastanza sputtanata.
Chiudo la porta, non prima di aver preso le altre ordinazioni: bicchieri d’acqua, caffè, prosciutto arrotolato su grissini, rigorosamente integrali. Imploro qualcuno di aiutarmi, preparo un caffè talmente stretto che si può tagliare col coltello, lo offro a fette, deposito tutto e corro via.
Squilla il telefono e di nuovo tutti vengono presi da attacchi di dissenteria o incontinenza. Non ho fatto in tempo a scappare in bagno per prima o ad andare a bere un bicchiere d’acqua. Alzo la cornetta che mi sguscia via dalle dita. L’afferro al volo prima che precipiti in terra, evitando all’interlocutore dall’altro capo della cornetta, la perforazione di un timpano.
Il signor gran cavalier dell’ordine presidenziale dei commendatori, discendenti dai templari!
Sarò opportuno passarlo? In fondo stiamo parlando del signor gran cavalier del’ordine presidenziale dei commendatori discendenti dei templari! Avrà un peso e un’importanza! Pasticcio con l’interfono e annuncio il signor…
Mi fermano alla parola “signor” in maniera sdegnata.
Non signor… Ma il gran Cavaliere dell’ordine presidenziale dei commendatori discendenti dai templari! un po’ di rispetto e che diamine!
Dico sconsolata.
Passo la chiamata e mi rintano in bagno per un quarto d’ora. Penseranno che io stia facendo la pulizia del colon, ma non posso reggere alcun rumore, altri stimoli o altre rogne. Almeno fino alla fine della mattinata. Spengo le luci del bagno, mi siedo in un angolo e mi rannicchio abbracciando le ginocchia. Le tempie mi pulsano, chiudo gli occhi ma vedo ancora lo sfarfallare dei neon come se ce li avessi piantati dentro alla testa, sotto le palpebre. Faccio dei respiri profondi pensando che mi sono giocata tutta la “pausa bagno” della giornata con questa assenza prolungata, ma non ce la faccio a tornare subito di la. Non ricordo più cosa stessi facendo prima di tutto il marasma. Dopo qualche minuto, mi faccio coraggio ed esco. Mi siedo alla mia scomoda poltrona in finta pelle, a farmi mordicchiare i polsi dai tarli di questo tavolo d’epoca troppo alto e scomodo.
Riprendo a stento il filo, mentre continua a suonare il campanello e gente dal magazzino fa su e giù per i corridoi portando pacchi.
Il telefono riprende a squillare ma ormai ho dato, immersa nella mia debole concentrazione, faccio finta di non sentire.
Un profumo dalle mille sfumature aggredisce le mie narici. Un misto di muffa di tappeti, segatura, detersivo per pavimenti e fumo. Tutte le fragranze su colli, capelli e polsi. Alcuni piacevoli, dentro ai quali perdersi volentieri. Tutti insieme costituiscono però una cacofonia olfattiva opprimente.
L’occhio torna ai quadri dai colori accesi che spuntano violentemente dalla parete. Pieni di occhi, iridi frastagliate, cammelli, dune e cupole. Sabbia sotto ai piedi, non più tappeti. Sole caldo sulla pelle invece dell’odioso sfarfallare dei neon.
Mi incanto e puntualmente qualcuno viene a darmi una svegliata, una botta ben assestata, come ai giradischi ai quali si incantava la puntina.
Escono gli ospiti dalla stanza, è di nuovo tutto un profondersi in ossequiosi saluti scordandosi puntualmente titoli e appellativi. La porta sbatte, arriva un grido dalla finestra. Stanno rimuovendo le auto parcheggiate in doppia fila e multando i motorini sui marciapiedi. Le auto strombazzano, è tutto bloccato. Qualcuno lancia improperi al portiere:
Perché non ha avvisato prima!
E si ricomincia…
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