Privilegi
Chiedermi il perché delle cose è una delle mie inclinazioni più totalizzanti. Posso mettermi per ore, giorni, anni ad analizzare una situazione, il comportamento di una o più persone, non venendone quasi mai a capo, e senza per questo smettere, perché:
Deve esserci una ragione per tutto!
Sapere (o provarci), mi aiuta a vivere meglio e a provare a me stessa che alcune cose si possono cambiare e che non sarà sempre tutto uguale, è solo questione di tempo.
Ogni tanto queste domande si fanno più pressanti, tanto che il rumore di rotelle finisce per diventare insopportabile da gestire ad un certo punto.
Spesso mi domando perché ritrovarsi a spiegare ancora e ancora, cose che dovrebbero essere ovvie, ricevendo spesso in risposta affermazioni su:
- cosa dovresti sentire
- di cosa dovresti parlare
- come dovresti dirlo
- che parole (o vocali) dovresti usare
mettendo spesso in dubbio il diritto altrui di parlare della propria condizione.
Che si parli di questioni di genere, orientamento sessuale, disabilità, origini, colore della pelle… in ogni caso c’è sempre qualcuno a dire:
“Te lo spiego io!”
In mezzo al mare di opinioni di cui nessuno sentiva la necessità, ci sono persone che sembrano non vedere le difficoltà degli altri. È l’unica spiegazione possibile. Altrimenti perché, ci si arrogherebbe il diritto di decidere quali parole siano più o meno adatte a descrivere le persone o condizioni che non vivi, e di cui spesso hai esperienza solo perché conosci l’amico del fratello del cugino di vattelappesca?
Peggy McIntosh, nel suo saggio “White Privilege: Unpacking the Invisible Knapsack” and “Some Notes for Facilitators” definisce il privilegio bianco come uno zaino invisibile e impercettibile, carico di benefit che di fatto non ci si è guadagnati, ma su cui si può contare ogni giorno solo perché parte di una particolare fetta di popolazione.

Si parla di “privilegio bianco” in questo caso, quindi il vantaggio che deriva dall’avere la pelle bianca. Ma può essere declinato in diversi altri ambiti.
Tutti potremmo avere privilegi dei quali siamo inconsapevoli, e pensare di esserci sempre “comportati bene”, non adottando comportamenti apertamente discriminatori. Di fatto però, potremmo averli adottati senza rendercene neanche conto, proprio per via di quello zaino lì. Questo mi ha fatto pensare a tutti i privilegi di cui godo in prima persona e a tutti gli errori fatti in passato. Penso che ognuno ne possa enumerarne diversi.
Qui trovate l’elenco della stessa McIntosh (è in inglese ma c’è santo google translator), vi rimando quindi all’articolo per ulteriori approfondimenti, ma…
Che si fa allora?
Intanto penso che rendersene conto sia il primo passo. Poi visto che non ce lo possiamo togliere (anche volendo) sto zainetto, possiamo provare ad usare i vantaggi che ne derivano per smontare il sistema. Non è facile e non è breve, ma l’idea che delle soluzioni ci siano, mi da una direzione.
Quindi prima di decidere le parole che dovrebbero descrivere, definire, offendere o ferire chi, forse ci si dovrebbe chiedere:
a me, ferirebbe?
E se nonostante innumerevoli chiarimenti e spiegazioni, ancora ci si arroga il diritto di decidere per qualcun altro, allora forse vale la pena di chiedersi:
Ma io, sono unə stronzə?

Per approfondire ancora, consiglio questo libro di Fabrizio Acanfora “In altre parole – Dizionario minimo di diversità” di effequ. Qui potete ordinarlo:
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